La notte del 16 ottobre 1590, un appartamento di un palazzo nei pressi di Piazza San Domenico Maggiore, a Napoli, fu teatro di un duplice omicidio così stravagante che, a distanza di oltre quattro secoli, si stanno ancora vagliando le prove. Il resoconto più attendibile del crimine proviene da una delegazione di funzionari napoletani, che ispezionarono l’appartamento il giorno seguente. Sul pavimento della camera da letto trovarono il corpo di don Fabrizio Carafa, duca di Andria, che un contemporaneo descrisse come un “modello di bellezza”, uno dei giovani più belli del suo tempo. Nel rapporto degli ufficiali si legge che il Duca indossava solo “una camicia da notte da donna con frange in basso, con gorgiere di seta nera”. Il cadavere era “coperto di sangue e trafitto da molte ferite”, tra cui un colpo di pistola che gli aveva “attraversato il gomito e perfino il petto, essendo la manica della suddetta camicia bruciata”. I presenti osservarono un’altra ferita da arma da fuoco, alla testa – “un po’ di cervello era trasudato” – e c’erano ferite su “testa, viso, collo, petto, stomaco, reni, braccia, mani e spalle”. Sotto il cadavere, trovarono una serie di fori, “che sembravano essere stati fatti da spade che avevano attraversato il corpo, penetrando profondamente nel pavimento”.
Sdraiato sul letto c’era il corpo di Donna Maria d’Avalos, la famosa e seducente moglie di Don Carlo Gesualdo, Principe di Venosa. Aveva la gola tagliata e la camicia da notte era inzuppata di sangue. Gli ufficiali notarono altre ferite, sul viso, sul braccio destro, sulla mano destra e sul busto. Gli interrogatori dei testimoni oculari non lasciarono dubbi su chi fosse il responsabile degli omicidi. Gesualdo, un ventiquattrenne dal viso stretto, era stato visto entrare nell’appartamento con tre uomini, gridando: “Uccidete quel mascalzone, insieme a quella prostituta! Non sia mai che un Gesualdo diventi cornuto!” Dopo un po’ riapparve: le sue mani grondavano sangue. Quindi tornò nella stanza, dicendo: “Non credo che siano morti!” E continuò con più violenza. Il rapporto si concluse con la constatazione che Gesualdo aveva lasciato la città.
“Piangi, Napoli mesta in bruno ammanto,
Di beltà, di virtù l’oscuro accaso
E in lutto l’armonia rivolga il canto”
(Così Torquato Tasso scriveva dopo l’atroce delitto.)
Il principe si recò a confessare il crimine a Juan de Zuniga, conte di Miranda, rappresentante del re di Spagna Filippo II a Napoli; la legge di allora consentiva al coniuge di ammazzare la moglie colta in fragrante adulterio, ma non l’amante, a meno che non fosse una persona abietta e di sicura immoralità. Il conte pilotò l’inchiesta per un immediato proscioglimento del principe per giusta causa, e al contempo lo invitò a lasciare Napoli per evitare la vendetta delle potenti famiglie degli uccisi. Le cose, come può sembrare, si risolsero lì. Tuttavia, Gesualdo pagò un prezzo postumo per gli omicidi. Nei decenni successivi alla sua morte, divenne una figura semi-mitica, addirittura vampirica, sulla quale si raccontavano storie sempre più truci. Si diceva che gli organi sessuali degli amanti uccisi fossero stati mutilati. Si diceva che i corpi fossero stati lasciati marcire sui gradini del palazzo. Si diceva che un monaco demente avesse violato il cadavere di Donna Maria. E si diceva che Gesualdo avesse ucciso un presunto figlio illegittimo degli amanti mettendo il bambino in una culla e facendolo dondolare appeso ad un balcone fino al punto di morte. Nessuna di queste storie sembra essere vera, con la possibile eccezione della prima. Tuttavia, la biografia di Gesualdo contiene prove di comportamenti alquanto bizzarri (non solo le uccisioni in sé, ma anche le successive indicazioni di rapporti con streghe e di relazioni sadomasochistiche con giovani uomini) che l’immagine prevalente di lui come un personaggio insolitamente sinistro sembra appropriata. Il solo nominarlo nella zona di Piazza San Domenico Maggiore può ancora provocare un momentaneo sgranamento degli occhi!
Gesualdo scrisse tanta musica, pubblicando sei libri di madrigali e tre libri di brani sacri. Si rivelò uno dei compositori più complessi e fantasiosi del tardo Rinascimento e di tutta la storia della musica. Le opere del suo periodo maturo – morì nel 1613, all’età di quarantasette anni – stravolgono le regole dell’armonia a un livello che rimase ineguagliato fino all’avvento di Wagner. La sua musica costituisce una “sorta di terra di nessuno”, per citare le note di copertina di un pionieristico LP del 1956 dedicato ai madrigali di Gesualdo. L’ammiratore più influente del compositore fu Igor Stravinsky, che nel 1960 scrisse un pezzo intitolato “Monumentum pro Gesualdo“ e, otto anni dopo, contribuì alla prefazione di uno studio accademico di Glenn Watkins ‘Gesualdo: the Man and his music’. Negli ultimi decenni il fascino non si è affatto attenuato. Ci sono state non meno di undici opere liriche sul tema della vita di Gesualdo, per non parlare di un fantasioso pseudo-documentario del 1995, realizzato da Werner Herzog, intitolato “Morte a cinque voci”.
Le origini della “febbre di Gesualdo” non sono difficili da individuare. Nessun romanziere avrebbe osato inventare un selvaggio principe rinascimentale che fosse anche un genio musicale d’avanguardia, anche se Gesualdo è apparso regolarmente nella narrativa. La domanda che rimane è se sia la vita o l’opera a perpetuare il fenomeno. Se Gesualdo non avesse commesso atti così sconcertanti, forse non presteremmo tanta attenzione alla sua musica. Ma se non avesse scritto musica così sconvolgente, non ci preoccuperemmo così tanto delle sue azioni. Molti crimini più cruenti sono stati dimenticati; è il nesso tra l’arte e il crimine a catturare la nostra attenzione. Come nel caso del Caravaggio, contemporaneo di Gesualdo, che uccise un uomo pugnalandolo all’inguine, ci chiediamo se la violenza dell’arte e quella dell’uomo provengano dalla stessa fonte demoniaca.
Una decina di anni fa visitai i luoghi principali della leggenda gesualdina: il quartiere di Piazza San Domenico Maggiore, la vicina chiesa del Gesù Nuovo, che ospita la sontuosa tomba di Gesualdo, e la cittadina collinare di Gesualdo, a un centinaio di chilometri a est di Napoli, dove il Principe fuggì dopo l’uccisione. “Il terreno di questa zona è vulcanico e rende le colture forti”, disse la mia guida mentre uscivamo da Napoli in auto, con quel modo a volte straziante che sembra necessario per viaggiare nell’Italia meridionale. “Tutto qui è forte, come Gesualdo”. Il castello di Gesualdo era in fase di ristrutturazione da molti anni – avendo subito pesanti danni durante il terremoto che devastò la regione nel 1980 – e non era stato ancora riaperto al pubblico. La guida, dopo lunghe trattative con i notabili locali, riuscì a farmi entrare. Si tratta di una formidabile struttura esagonale, che domina un ampio panorama. Dopo gli omicidi, si racconta, Gesualdo si scatenò nel taglio degli alberi, in modo da avere una visuale illimitata sulle potenziali minacce. (La legge non poteva toccarlo, ma forse temeva la vendetta delle famiglie degli amanti). All’interno, la struttura era piena di macerie e polvere; la ristrutturazione procedeva a rilento. Tuttavia, ho potuto immaginare il castello dell’epoca di Gesualdo: un luogo più austero che grandioso, la sua cappella consacrata alle devozioni solitarie, le sue sale più grandi dedicate a serate di natura oscuramente giocosa. Naturalmente, si dice che il fantasma di Gesualdo infesti i locali. Non ho riscontrato energie occulte, anche se preferirei non trovarmi da solo in quelle stanze a tarda notte.
Il castello si trova in cima alla collina sin dal VII secolo. La famiglia Gesualdo, di origine normanna, divenne signora della città all’inizio del XII secolo, e una serie di vantaggiosi matrimoni aggiunse ricchezza e potere alla casata. Il titolo di Venosa fu conferito nel 1561, quando il padre di Gesualdo sposò Giroloma Borromeo, nipote di Papa Pio IV e sorella del Cardinale Borromeo, che ebbe un ruolo dominante nella Controriforma. Gesualdo fu avviato al sacerdozio fino alla tarda adolescenza, quando la morte del fratello maggiore lo consacrò alla vita pubblica. Circa un anno dopo la macabra fine del suo primo matrimonio, Gesualdo ereditò il principato e divenne uno degli uomini più ricchi del Regno di Napoli. Nel giro di tre anni si sposò nuovamente con Eleonora d’Este, cugina di Alfonso II d’Este, duca di Ferrara.
Il secondo matrimonio sembra essere stato poco più felice del primo. Gesualdo avrebbe assunto comportamenti violenti e trovato soddisfazione sessuale altrove. Ciò che contava di più per lui, senza dubbio, era la possibilità di entrare nella sfavillante corte ferrarese e, soprattutto, nella sua cerchia di musicisti d’élite. I duchi d’Este potevano essere un manipolo particolarmente spietato, ma avevano un fiuto impeccabile e attirarono a Ferrara molti artisti importanti. La corte ospitò, tra gli altri, i poeti Ludovico Ariosto, Battista Guarini e Torquato Tasso; i pittori Cosimo Tura, Lorenzo Costa e Dosso Dossi; i musicisti Josquin Desprez, Adrian Willaert e Cipriano de Rore. Alfonso II si avvalse di un trio di cantanti virtuose – il Concerto delle Dame – famose per la loro capacità di eseguire i progetti musicali più estrosi.
Gesualdo si recò a Ferrara per il suo matrimonio, nel 1594, e vi rimase per la maggior parte dei due anni successivi. È evidente che la sua cultura lo ipnotizzava. Un collaboratore di Alfonso II, che accompagnava Gesualdo, riferì al Duca che il nuovo genero non riusciva a smettere di parlare di musica: “Ne fa aperta professione e mostra a tutti le sue opere in partitura, per indurli a meravigliarsi della sua arte”. Il Principe si era avvicinato alla musica fin dalla più tenera età; il suo primo brano pubblicato risale al 1585. Inoltre, Gesualdo non perseguiva una mera raffinatezza da gentiluomo: mirava a provocare meraviglia. L’informatore di Alfonso riassunse concisamente lo stile emergente di Gesualdo quando scrisse: “È evidente che la sua arte è infinita, è piena di attrazioni e si muove in modo straordinario”.
In un certo senso Gesualdo compositore era tipico del suo tempo e del suo luogo. Nella sua giovinezza il modo dominante dell’epoca, nella musica e nelle altre arti, era il Manierismo: una ribellione contro l’umanesimo rinascimentale che enfatizzava la stilizzazione ostentata, le tecniche d’urto, il virtuosismo artistico e l’allusione all’oscuro e all’irrazionale. Giorgio Vasari lo definì “stile moderno”, lodandone il vigore e il dinamismo. Questo è il periodo delle scene bibliche febbrilmente sensuali di Rosso Fiorentino (Giovan Battista di Jacopo di Gasparre), delle folle e delle battaglie cinematograficamente vorticose di Tintoretto, dei volti smagriti di El Greco. In musica, il Manierismo si espresse attraverso risposte vivaci, perfino esagerate, alle sfumature dei testi poetici: bruschi contrasti, progressioni armoniche stravaganti e altre alterazioni della superficie liscia e vorticosa dello stile alto-rinascimentale.
Il madrigale, un breve brano profano per un piccolo gruppo di voci, divenne il veicolo preferito del manierismo musicale. Oggi si è abbastanza concordi nell’individuare come punto di rottura “Il bianco e dolce cigno”, un madrigale del 1539 di Jacques Arcadelt, compositore franco-fiammingo che prosperò in Italia. Il testo presenta un tipico doppio senso rinascimentale, paragonando il grido di un cigno morente alla “gioia e al desiderio” dell’oblio sessuale. Al culmine, le voci si dividono in una serie estatica di linee ondulatorie: “la prima simulazione grafica in musica dell’orgasmo”.
La corte estense di Ferrara era il quartier generale dell’innovazione manierista. Alla fine del XVI secolo, il linguaggio musicale stava subendo una transizione epocale: i compositori stavano accantonando i modi, che avevano regolato la musica fin dal periodo medievale, e si stavano orientando verso una rete semplificata di tonalità maggiori e minori. (Questo sistema si consolidò all’inizio del XVII secolo, in particolare nella nuova arte dell’opera, e ancora oggi regola la maggior parte della musica occidentale). Tuttavia, le alternative erano nell’aria. Nel 1555, il compositore ferrarese Nicola Vicentino pubblicò un complesso trattato, “L’antica musica ridotta alla moderna prattica“, che era, apparentemente, una ripresa della teoria musicale greca. Le riflessioni di Vicentino sui tre generi della musica greca (diatonica, cromatica ed enarmonica, ognuna delle quali comporta intervalli progressivamente più stretti) lo portarono a dividere l’ottava in trentuno toni invece dei soliti dodici. Il compositore inventò due strumenti a tastiera, l’archicembalo e l’arciorgano, sui quali poter realizzare le sue sfumature microtonali.
Un inventario postumo del castello di Gesualdo riporta una copia dell’archicembalo, suggerendo che il Principe avesse tendenze Vicentine. Sebbene non abbia specificato i microtoni nelle sue partiture, potrebbe essersi interessato al sistema del Vicentino perché incoraggiava il libero movimento da un accordo all’altro. La libertà è un tratto distintivo dello stile di Gesualdo. Per dirla in termini moderni: se un brano fosse in la minore, ci si aspetterebbe di sentire accordi correlati come re minore e mi maggiore, le cui note si intersecano con la scala di la minore. Non ci si aspetterebbe, ad esempio, un accordo di Do diesis maggiore, estraneo alla tonalità. Quell’accordo suona con sfida all’inizio di una delle più grandi opere di Gesualdo, il madrigale in la minore “Moro, lasso, al mio duolo“. Non c’è da stupirsi che la musica di Gesualdo abbia cominciato a riemergere nel XIX secolo: queste progressioni inquietanti sono un punto fermo del Romanticismo.
Gesualdo, non meno di Schubert o Wagner, compie queste oscillazioni armoniche con uno scopo esplicito. Il testo di “Moro, lasso”, come “Il bianco e dolce cigno” di Arcadelt, gioca sul doppio significato di morte, liberazione terrena e sessuale:
Moro, lasso, al mio duolo,
e chi può darmi vita,
ahi, che m’ancide e non vuol darmi aita!
O dolorosa sorte,
chi dar vita mi può,
ahi, mi dà morte!
In questo caso, però, la sensualità cede il passo a un’atmosfera agitata e ribollente. Gesualdo sembra andato oltre il principio manierista di creare effetti spettacolari; è un espressionista, che utilizza sia le parole che la musica per evocare stati psicologici sepolti. Anche se non aveva alcun contatto apparente con il mondo dell’opera, i suoi madrigali hanno la vivacità delle scene drammatiche. Un commento del 1628 afferma che Monteverdi, il primo grande maestro dell’opera, “cercò di addolcire e rendere più accessibile” lo stile di Gesualdo. Per esempio, nell’Orfeo di Monteverdi, un messaggero comunica a Orfeo che la sua amata Euridice è morta, l’armonia prende un’improvvisa piega lugubre, come se avesse colto il brivido di Gesualdo.
L’immagine di Gesualdo come visionario d’avanguardia è allettante, ma per certi versi è anacronistica e ignora le complesse correnti della musica tardo-rinascimentale. Dinko Fabris, un importante musicologo, ha esposto in maniera decisa la sua visione sul compositore: “Vogliamo sempre essere sorpresi da Gesualdo, a causa del suo mito come sperimentatore, ma invece era un conservatore, per quanto fosse possibile esserlo in quell’epoca. Monteverdi era il radicale, il nuovo. C’è una lettera molto curiosa del poeta Guarini, in cui dice di preferire Gesualdo allo stile moderno perché è così lontano dalla durezza di Monteverdi. Per Guarini, Gesualdo è così bello, così facile! Esattamente il contrario di quello che pensiamo oggi”.
In un’epoca in cui i compositori più giovani enfatizzavano il potenziale melodico di una linea solista (la firma del primo barocco), Gesualdo si è dedicato alla veneranda arte della polifonia, in cui ogni voce ha la stessa importanza. Egli si aggrappava ai modi medievali, strappando la massima espressione a un linguaggio in declino. In “Moro, lasso”, la voce del tenore segue i contorni del modo eolico mentre le altre voci si allontanano. In effetti, il movimento del tenore aumenta la tensione del brano e subisce uno stress straordinario come se fosse legato a qualche strumento di tortura azionato per mezzo di una manovella che gira lentamente.
La fase finale della breve vita di Gesualdo fu, per certi versi, più spettrale di quella iniziale. Se qualche lettore troverà questa storia non sufficientemente cruenta, sarà ora accontentato. Nel 1603, due donne della sua famiglia furono processate per stregoneria dalle autorità locali e, sotto tortura, confessarono. Una delle presunte streghe disse di aver dato al Principe pozioni di sangue mestruale e che dopo un rapporto sessuale con lui aveva inserito un pezzo di pane nella vagina e glielo aveva servito in una salsa. (Entrambe le donne furono imprigionate nel castello, il che non può aver migliorato l’atmosfera domestica.
Il padrone del castello era preda di una serie di disturbi, reali o meno, e adottava curiosi rimedi. Secondo un cronista, Gesualdo era “afflitto da una vasta orda di demoni che non gli davano pace per molti giorni, a meno che dieci o dodici giovani, che manteneva appositamente, non lo picchiassero violentemente tre volte al giorno, operazione durante la quale era solito sorridere gioiosamente”.
Non è possibile evitare di pensare a questi episodi quando si ascolta Gesualdo. Forse siamo costretti a farlo. Più di qualche commentatore ritiene che le ultime due raccolte di madrigali – il Libro V e il Libro VI, entrambi pubblicati nel 1611 – siano autobiografiche. È possibile che Gesualdo abbia scritto lui stesso le poesie o le abbia fatte scrivere secondo le sue indicazioni. Si soffermano così spesso su temi di tormento, dolore, tristezza e morte che, senza l’incessante varietà della musica, diventerebbero monotoni. Gesualdo potrebbe essere stato il primo compositore della storia a scrivere una sorta di diario musicale. Nei madrigali di Gesualdo, si può affermare che le voci soffrono. Gesualdo è la massima espressione del dolore nella musica.
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