A Claudio Monteverdi hanno riferito di uno studioso venuto da un Paese remoto per incontrarlo e lui, di natura curiosa, ha accettato. Così mi hanno fatto indossare un bel vestito rinascimentale e un paio di calzature adatte, per sembrare meno strano, e mi hanno spiegato il cerimoniale per avvicinare il compositore. Mi hanno anche consigliato di non chiedere troppo in merito alle polemiche con Giovanni Maria Artusi e di andarci cauto a fare paragoni con Giovanni Pierluigi da Palestrina. Finalmente mi hanno introdotto al suo cospetto. Entro in San Marco a Venezia, salgo una stretta scala che conduce al pergolo di sinistra e d’improvviso me lo trovo davanti, mentre i cantori di San Marco, finita una prova, stanno abbandonando il luogo. Mentre salivo le scale ho riconosciuto il brano che stavano terminando di provare: Laudate Pueri Dominum di Adrian Willaert. Ecco, magari questo potrebbe essere un buon argomento per iniziare la nostra conversazione.
CM: Mi mancano Mantova e Cremona… Qui a Venezia c’è troppa umidità e la salsedine marina peggiora la mia artrosi. Ovvio, è prestigioso lavorare qui, ma a volte…vorrei essere a Cremona, anche se ciò mi rimanda a tristi vicissitudini…Comunque, mi scusi per questo inizio, non vorrei rattristarla con le mie vicende familiari. Mi hanno detto che lei scrive per un giornale anche se non ho ben capito di cosa si tratta.
AA: Si, maestro, la ringrazio per questa opportunità. I miei lettori saranno increduli di questa intervista! Deve sapere che negli ultimi anni la musica corale si è molto sviluppata dovunque e si è creato un rinnovato interesse per la musica rinascimentale.
CM: Ovvio, lei sta parlando di musica corale contemporanea, di quella che io ed alcuni miei seguaci stiamo riformando, con estrema fatica, sapesse, ma con tanta soddisfazione. Qui a Venezia siamo più liberi, credo lei lo sappia…
AA: Beh, maestro, penso sarebbe difficile spiegarle il mio punto di vista sulla ‘contemporaneità’ della musica rinascimentale… Comunque volevo partire un po’ dall’inizio. Che ricordi ha dei suoi primi anni da compositore?
CM: Non è semplice, col senno di poi…Ero considerato un ‘bambino prodigio’. Nel 1582, a soli 15 anni, avevo già pubblicato le Sacrae Cantiunculae, presso il famoso editore Gardano di Venezia; ‘E’ un allievo di Ingegneri’, dicevano allora, e in questa Antologia di Mottetti, pur nell’evidente ricalco di certi stilemi del grande polifonista sacro, Maestro della Cattedrale di Cremona con il quale studiavo, volevo dimostrare una sottigliezza di scrittura che rimarrà una mia felice costante: i Mottetti sono a tre voci, non a cinque come usanza del tempo, e questo le dice che da giovane non ero tanto attratto dalle grosse sonorità quanto piuttosto dal raffinato rapporto con la parola, nella miglior tradizione della scuola di canto che ha origine nelle corti italiane del Quattrocento.
AA: Il suo lavoro, maestro, segna più di ogni altro il passaggio dalla ‘prima prattica’ (la polifonia tipicamente della scuola romana), alla ‘seconda prattica’ e poi alla musica ‘monodica barocca’. Nel corso della sua vita lei ha prodotto opere che possono essere classificate in tutte queste categorie; si rende conto che lei è uno dei principali innovatori che portarono al cambio di stile?
CM: Seguendo il movimento generale dell’epoca, basato sulla concentrazione espressiva della singola voce, ho fatto proprie le nuove teorie secondo le quali la musica doveva illustrare i contenuti espressivi della parola, potenziandoli e traducendoli in immagini sonore. Dico spesso: l’armonia sia serva dell’orazione! Comunque, l’evoluzione della mia opera si dipana nel periodo del mio soggiorno a Mantova, presso i Gonzaga. Tra il 1587 e il 1606, ho pubblicato cinque libri di madrigali, ancora polifonici e concepiti secondo la logica cinquecentesca, ma rivelanti elementi di forte originalità. Nel primo libro emergono alcuni inaspettati ritmi di danza, di fresca ispirazione popolaresca, o atmosfere arditamente sensuali, come quelle di ‘Baci soavi e cari’, su testo di Battista Guarini. Lo ha conosciuto il Guarini? Nel secondo e nel terzo, confrontandomi spesso con Torquato Tasso, cerco di far emergere con evidenza la singola voce, continuando la ricerca di individualità solistiche nel quarto libro. Ma è nel quinto libro, del 1605, che si apre pienamente il mio ideale di una musica che non si chiuda mai nel gioco astratto dei rapporti sonori, ponendosi invece come manifestazione e riproduzione delle passioni umane. È in questo libro che riassumo compiutamente la seconda prattica, col basso continuo (che favorisce l’impiego di dissonanze senza preparazione, grazie alla sua chiara indicazione armonica) e lo stile concertato, che contrappone il solista al coro o gruppi di voci di diverso peso, registro e timbro, creando una atmosfera drammatica, caravaggesca.
AA: Ma questo modo così moderno di pensare, di scrivere, caro maestro, le ha procurato dei bei grattacapi. Mi scusi se gliene parlo, ma è impossibile far finta di non sapere della sua ‘querelle’ con…lo dico?… Giovanni Maria Artusi. Se rievocare questa storia non le procura troppo dolore, gradiremmo qualche parola in merito.
CM: Ah, quel nome…Qual misera tenzone! Beh, comunque, questi sono i fatti. Nel suo ‘Delle imperfettioni della moderna musica’ Artusi si scagliava contro quelle innovazioni di cui ho fatto cenno, praticate non solo dal sottoscritto ma anche da altri madrigalisti dell’ambiente mantovano e ferrarese, come Luzzaschi, Gesualdo, il giovane Sigismondo D’India, solo perché contrarie alle regole del contrappunto classico e a tutta la tradizione della musica ‘pura’ e concettuale di stampo pitagorico che a quelle regole era sottesa. Risposi con alcune lettere, firmandomi l’Ottuso Accademico, e come da regola in ogni querelle che si rispetti, seguì la contro-risposta dell’Artusi. Ma la risposta migliore a queste critiche furono il mio Quarto e soprattutto il Quinto Libro dei Madrigali, dove intensificai tutti gli espedienti formali già sperimentati nel Terzo Libro, aggiungendo in quest’ultimo un’altra fondamentale innovazione: la prescrizione di un basso che doveva sostenere le linee vocali, ma non raddoppiandole meramente, bensì ponendosi con esse in un rapporto di larga indipendenza: per distinguerlo dal basso che raddoppiava, in uso nella musica liturgica e chiamato basso seguente, questo lo chiamai invece basso continuo. La funzione di questo basso era quella di consentire alle voci superiori, tre, due o una voce acuta, nella tradizione del Concerto delle Dame ferraresi, di muoversi con grande libertà per esprimere gli affetti del testo, mentre il basso doveva fungere da collante sonoro che ripristinava per altra via la fluidità polifonica compromessa. Ma la polemica non si fermò qui: pensi che Artusi, in maniera vile, celato sotto lo pseudonimo di Antonio Braccini da Todi, ebbe ancora la voglia di rispondere: a questo punto intervenne, in mia difesa, mio fratello Giulio Cesare, anch’egli compositore, in una ‘Dichiaratione premessa agli Scherzi musicali (1607) di Claudio’, mentre io meditavo di esporre più diffusamente i miei principi in un trattato intitolato polemicamente ‘Seconda prattica, overo Perfetione della moderna musica’, che però non venne mai stampato. So che per lei tutto ciò potrebbe sembrare senza senso e non mi giudichi come una persona polemica per spirito di contraddizione; ero sicuro di quanto affermavo! Quando mi allontanavo dalle regole lo facevo con perfetta coscienza e a ragion veduta, allo scopo di evidenziare il contenuto affettivo delle poesie messe in musica. Ma ancora lui, Artusi, sempre sotto lo pseudonimo di Braccini, ribatteva a mio fratello con il suo ‘Discorso secondo musicale’, del 1608. Stremato, l’ultima parola spettò a me, e a quelli che, come me, rifiutavano un astratto ideale di bellezza musicale fondato su presunti fondamenti pitagorico-matematici in nome del valore espressivo della musica, della sua capacità di esprimere e suscitare gli affetti dell’animo umano. Perché il nuovo stile incontrò sempre maggior successo nei cenacoli culturali delle corti di tutta Europa, facendo cadere ben presto nell’oblio il vecchio stile contrappuntistico puro, che non venne più applicato a testi madrigalistici. Alla fine ero riuscito nell’intento, ma sa i bruciori di stomaco che tali sforzi mi son costati?
AA: Mi scuso ancora, mi avevano avvertito che lei non amava parlare di quest’argomento. Nel paese dal quale vengo queste dispute si svolgono sui social-network, a migliaia, tutti i giorni e per futili motivi. Ma non pretendo che lei possa capire questo. Provo ammirazione per la sua tenacia! Maestro, ci racconti un po’ della sua vita a Venezia, città in cui lei si trova oramai da tanti anni…
Come saprà, sono a Venezia da circa venticinque anni, esattamente dal 5 Ottobre 1613, dove vanto un trattamento faraonico: ‘Il servizio poi è dolcissimo’, lo scrissi anche nel 1620 al mio grande amico mantovano, il conte Alessandro Striggio. A sette anni dallo sbarco a Venezia a lui raccontavo, davvero compiaciuto, del grande rispetto che riceveva la mia autorità artistica e professionale, della libertà in riferimento agli obblighi d’orario e, particolare degno di nota, della lauta retribuzione: lo stipendio che ricevo a San Marco, come Maestro di cappella, che già all’inizio del mio incarico ammontava a trecento ducati, ha ormai raggiunto le vette dei quattrocento ducati annui. Una somma che i miei colleghi del passato (tra cui Adrian Willaert, Cipriano de Rore e Gioseffo Zarlino) mi avrebbero invidiato, senza contare i duecento ducati guadagnati dai lavori ‘fuori busta’. Il trattamento lusinghiero e gratificante che ho ottenuto a Venezia viene per di più esaltato dal ricordo che avevo di quei pochi, incerti e ritardatari scudi offerti a Mantova; capitava infatti che i pagamenti non arrivassero in tempo e che addirittura fossero condizionati ‘alla morte del principe’. Sa cosa dicevo sempre a Striggio? ‘Chi vuole il servitore contento deve accontentarlo in modo onorevole’! E dire che il mio arrivo a Venezia non è stato per nulla agevole: quattro giorni di viaggio in cui venni derubato e umiliato da due malviventi, i quali mi risparmiarono solo un mantello di raso confezionato a Cremona (troppo lungo per la statura dei banditi) e la domestica, che impietosì i malviventi con diverse preghiere, scongiuri e pianti; come se non bastasse, dopo aver passato la notte in un’osteria, la barca su cui viaggiavo restò insabbiata per quasi due giorni finché la forte pioggia e il vento disincagliarono l’imbarcazione. Insieme alla mia famiglia arrivai a Venezia solo alla mezzanotte del giorno dopo, sicuramente con lo spirito sconsolato e l’abito inumidito!
AA: Prima di congedarci, caro maestro, vorrei rivolgerle un’ultima domanda. Salendo le scale che mi hanno portato sin qui, ho avuto la fortuna di ascoltare un brano del suo predecessore maestro di cappella a San Marco, Adrian Willaert. Il Laudate Pueri Dominum è un salmo a cori spezzati e sono davvero onorato di averlo potuto ascoltare nella sua cornice ideale, ovvero in Basilica. Cosa rende così unica l’acustica del luogo dove ci troviamo?
CM: Non sono certamente un architetto, ma considerato la complessità spaziale di una chiesa a cinque cupole, lei si sarà sorpreso nello scoprire come la chiarezza di suono per l’ascoltatore nel presbiterio raggiunga una qualità acustica riscontrabile in un sala o in un teatro della città. Fortunatamente, la leggera irregolarità della superficie del mosaico della cupola previene con successo ogni non desiderata messa a fuoco del suono. L’effetto causato dal marmo dell’iconostasi è di fornire un po’ di protezione dalla riflessione esagerata del suono proveniente da altre parti della chiesa. In altre parole il presbiterio si comporta come una chiesa all’interno di un’altra chiesa permettendo condizioni di un migliore ascolto che in ogni altro luogo della basilica. Il ‘suono’, ossia la buona resa esecutiva di queste musiche, all’interno di San Marco dipende, come le ho detto, da una complessa interazione di diversi fattori, musicali e non: non solo dalle note sulla carta, dalla strumentazione, dalle diminuzioni ‘improvvisate’, ma anche, e altrettanto fondamentalmente, dalla disposizione dei cori, in relazione alle esigenze della liturgia e del cerimoniale del giorno, e, non ultime, a quelle della stessa specificità della composizione. Questa è la magia dell’acustica in San Marco!
AA: Maestro, la ringrazio per avermi dedicato un po’ del suo tempo e per la cortesia dimostrata. Non so se ci rivedremo presto…
CM: Perché no? Si ricordi di mandarmi una copia di questa nostra chiacchierata. Va bene anche un manoscritto, se vuole!
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