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A differenza dello stato delle ricerche di non molti anni fa, le conoscenze attuali sulla cappella musicale di S. Marco si avvalgono di una serie d’indagini sempre più nutrita su aspetti particolareggiati della vita della basilica ducale e, più in generale, di Venezia tutta. Sono comparsi negli ultimi anni numerosi studi sulla struttura della cappella musicale, sulle biografie e sul sistema di mecenatismo e sostegno economico dei suoi membri, sulla liturgia propria della chiesa e sul cerimoniale ducale, sul rapporto che intercorre fra tali aspetti e i repertori di canto liturgico e canto figurato in uso presso la basilica[1]. Si presentano qui, per punti, i dati che più caratterizzano la cappella marciana all’epoca della Controriforma, aggiungendo alcune osservazioni e speculazioni di natura più generale.

1 – Essendo la basilica di S. Marco, fino alla caduta della Repubblica, la cappella privata del doge, a quest’ultimo spettava – almeno formalmente – il magistero su di essa. Il doge Andrea Gritti intervenne direttamente per assicurare l’elezione di Adrian Willaert come maestro di cappella; egli, e alcuni suoi successori, s’intromisero di volta in volta negli affari della chiesa per modificare il regolamento della cappella. Ma, in generale, i poteri effettivi sul governo della chiesa – compresi l’assunzione e il licenziamento dei musicisti – erano delegati ai tre membri, eletti a vita, della Procuratia de Supra, di cui alcuni noti per il forte impegno culturale esibito anche nella vita privata. Per la ricerca di nuovi membri della cappella musicale si ricorre all’assistenza di cantori marciani in viaggio fuori città, ma soprattutto – dati l’orientamento “politico” della chiesa e i mezzi “politici” di cui disponeva – ai canali diplomatici rappresentati dalle autorità governative delle città di terraferma e dagli ambasciatori e altri residenti veneziani all’estero, questi ultimi, soprattutto, per l’elezione del maestro di cappella (una scelta, questa, fatta sempre dopo grande riflessione) e, in alcuni casi, di soprani castrati. Per esempio, dopo la morte di Willaert nel 1562 s’invoca l’aiuto, tramite lettera degli ambasciatori veneziani presso il Concilio di Trento, della corte milanese, francese ed imperiale, nonché quello dei residenti a Napoli e a Genova. I principali protagonisti musicali alle cerimonie liturgiche sono: il maestro di cappella, i due organisti, la cappella dei cantori (di cui più sotto), i cosiddetti “giovani di coro” (i quali avevano l’obbligo della maggior parte delle esecuzioni di canto liturgico), il gruppo degli strumentisti (quattro cornettisti e trombonisti sono assunti nel 1568, un altro cornettista nel 1576), i “pifferi del doge” (sei suonatori, forse anch’essi di cornetti e tromboni che accompagnavano il doge in processione durante le importanti occasioni di Stato, e che talvolta suonavano anche in chiesa).

2 – Quando, nel novembre 1562, il nucleo dei cantori di S. Marco fu diviso in due parti – cappella grande, cappella piccola – esso disponeva di ben 29 unità: 6 soprani, 9 contralti, 6 tenori, 3 bassi, 5 putti soprani. Non tutti dovevano cantare tutti i giorni. Quelli della cappella grande (la più numerosa, che comprendeva per la maggior parte i cantori più bravi e più attendibili) avevano il compito di cantare “tutti li giorni della settimana eccetto sulum li giorni di zobia e venere”: questi, sempre nel novembre 1562, erano in 20 (4 soprani, 5 contralti, 3 tenori, 3 bassi, 5 putti soprani). La cappella piccola, che comprendeva 2 soprani, 4 contralti, 3 tenori, niente bassi e gli stessi 5 putti soprani, cantava nei giorni di giovedì e venerdì festivi. In più, essa doveva essere presente in basilica e a disposizione del maestro di cappella in “tutti li giorni che la Serenissima Signoria andrà in giesia, et ancho li giorni et le vigilie de tutte le feste solenne che se aprirà la pala (d’oro)”, ma senza cantare se non dietro specifica richiesta da parte del maestro. Alla sola messa del sabato le due cappelle cantavano unitamente. Gli elenchi dei cantori compilati nel 1556 e nel 1565, quando si fusero definitivamente le due cappelle, evidenziano totali solo leggermente inferiori; altre liste, del 1589 e 1595, rivelano però un notevole calo nel numero dei cantori stipendiati, che scende ad appena tredici unità.

3 – Gli stipendi dei cantori sono assai variabili; essi vanno, negli anni ’60, da un minimo di trenta ducati ad un massimo, ragionevolmente alto, di ottanta (il compenso di cento ducati l’anno, concesso ad alcuni cantori assunti verso la fine del Cinquecento, non viene superato per tutto il secolo successivo). Le condizioni dell’impiego – quelle, per intenderci, non scritte, ma sancite dalla pratica – prevedevano l’incarico “a vita”, o comunque a lunga durata (sono pochi i licenziamenti per tutto il Cinquecento), la possibilità di aumentare il proprio guadagno con prestazioni straordinarie presso le altre chiese, le Scuole e i palazzi privati, la provvisione, per la vecchiaia, di una pensione o altra sovvenzione derivata da prebende o sinecure amministrate dalla Procuratia. Tali prebende e sinecure servivano anche – e in modo sistematico – a incrementare gli stipendi di quei cantori (di cui la maggior parte erano preti, almeno nominalmente) in pieno svolgimento delle loro carriere. Alcuni membri della cappella musicale erano attivi anche nel settore della stampa musicale, nonché in altre zone della vita commerciale.

4 – Quanto agli obblighi polifonici dei cantori durante la messa e il vespro, un’ordinanza del 1562 li richiama alla necessità di cantare “all’Offertorio il Sanctus, Agnus Dei et post comunicationem della Messa et similmente nelli Vespri, et quando cantaranno il Sanctus, Pleni, et Osanna, alla Ellevatione. Debbino quelli cantar con li soi dui e terzi et quanto etiam meglio potrano, et non così cursivamente come si fa”. L’uso della frase “con li soi due e terzi” può suggerire due orientamenti: 1) il desiderio, da parte dei Procuratori, che si cantasse in polifonia con la solita riduzione dei textures per alcune sezioni dell’Ordinario; 2) più ipoteticamente che queste sezioni ridotte venissero cantate da solisti. Nel 1581, l’agente del duca Alfonso II di Ferrara, Giulio Cesare Brancaccio, nel recarsi diverse volte nella chiesa di S. Marco per accertare le qualità vocali d’un certo “frate napolitano dell’ordine di minori contrabasso di S. Marco” (con l’idea di un’eventuale proposta di assunzione presso la cappella ferrarese), lo sente sia “accompagnato” che “solo, et tra le altre alcuni terzi et duo”[2], può dare l’impressione della conoscenza in S. Marco non solo delle prassi succitate, ma anche di quella per cui un testo polifonico sarebbe eseguito da un unico solista vocale con accompagnamento di organo e/o di altri strumenti.

5 – Se le dimensioni relativamente cospicue della cappella e, insieme, la notevole presenza della musica polifonica nelle celebrazioni liturgiche aiutano a creare, in qualche modo, quell’immagine che più si addice a una grande cappella di Stato, anche l’idea dell’esclusività può costituire un buon punto di partenza per l’auto definizione, in senso simbolico, dell’istituzione e dello Stato. Nel caso specifico di S. Marco si è in presenza di una liturgia, d’un canto liturgico e, soprattutto, di un cerimoniale ducale di carattere davvero unico, accanitamente difesi dai responsabili della Chiesa e dello stato veneziani contro la politica della Chiesa controriformistica che punta sulla centralizzazione del potere ecclesiastico a Roma e sulla relativa uniformazione del rito sul modello tridentino. Non proprio esclusivo, forse, ma abbastanza peculiare è il modo di eseguire a doppio coro i salmi vesperali nelle feste principali; da documenti provenienti da S. Marco risulta, inoltre, che la particolare prassi di dividere la cappella in due gruppi per l’esecuzione di questi salmi – “quatuor cantores in uno choro, et reliqui omnes in altero” – si basa su una più antica tradizione di esecuzione del relativo canto liturgico. Spostando l’attenzione sulle composizioni per grandi organici, spesso a cori spezzati, eseguite in occasione delle più importanti cerimonie di carattere “politico-religioso” e nelle principali ricorrenze liturgiche, si può costatare, forse, una certa precocità di sviluppo del repertorio veneziano rispetto agli altri centri italiani, ma soprattutto la tendenza a riallacciarsi al modello di alcune altre celebri cappelle di Stato. Risale al 1564 la prima pubblicazione contenente composizioni a più cori destinate originariamente alla cappella monacense dei duchi di Baviera (maestro di cappella Orlando di Lasso). Le musiche per grandi organici contenute nel quinto volume del Novus thesaurus musicus del 1568 sono tutte – o quasi – attribuibili a compositori attivi presso la corte degli Asburgo; la stragrande maggioranza di questi brani festeggia l’uno o l’altro dei membri della casa regnante. Del veneziano Andrea Gabrieli, il primo brano policorale di cui si hanno notizie – il mottetto a dodici voci Deus misereatur nostri – compare proprio in questa raccolta, ed è probabile che la data di composizione di questo pezzo sia da far risalire al periodo trascorso dal musicista al nord delle Alpi, nel o attorno al 1562. Le prassi musicali della corte austriaca e bavarese dovevano essere ben conosciute a Venezia non solo attraverso i molteplici contatti intercorsi tra le varie istituzioni e il loro personale – si ricordino i soggiorni di Andrea e Giovanni Gabrieli, Francesco Londariti, Lodovico Zacconi ed altri al nord delle Alpi, quelli di Orlando di Lasso nei vari centri della penisola italiana – ma anche attraverso la ripubblicazione a Venezia, nel 1569, dei Discorsi delli trionfi, giostre, apparati e delle cose più notabili fatte nelle sontuose nozze dell’Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Duca Guglielmo di Massimo Troiano (la prima edizione monacense risale all’anno precedente), con la sua dettagliatissima descrizione della cappella musicale dei duchi di Baviera.

6 – È stata formulata un’ipotesi di analisi dei testi liturgici e paraliturgici delle musiche per grandi organici come tante allegorie religiose degli avvenimenti di spicco nella vita civile della Serenissima, allo stesso modo di quella proposta per le allegorie figurative di Veronese o Tintoretto. Essendo S. Marco la chiesa ufficiale di Stato, dove accanto alle normali celebrazioni dell’anno liturgico potevano essere solennizzati gli avvenimenti di particolare rilievo per il buon andamento della Repubblica, è del tutto ragionevole supporre che, nell’ambito di questi festeggiamenti, un qualsiasi testo appartenente alla liturgia propria del giorno e, al tempo stesso, capace di esprimere allegoricamente quel preciso momento nella storia dello Stato veneziano poteva essere scelto per l’enfasi retorica attraverso la messa in musica per grande organo. La stesura di testi non liturgici si sarebbe basata su analoghi criteri. L’immagine “mitica” di Venezia, che si manifesta attraverso la storiografia, la trattatistica politica, l’oratoria, tra le altre, è proiettata verso la messa in evidenza dell’effettiva unità fra governo temporale e governo spirituale, con ricorso a temi quali l’origine divina della città, l’ispirazione divina delle sue leggi e delle sue costituzioni. Tre esempi per tutti: a) il testo del mottetto a otto voci di Andrea Gabrieli, Benedictus Dominus Deus Sabaoth, che si riferisce con evidenza alla vittoria di Lepanto avvenuta nel 1571, caratterizza Venezia come erede di Sansone, Gedeone e, presumibilmente, dell’intera tradizione ebrea (“Pugnavit Sanson, pugnavit Gedeon, vicit Sanson, vicit Gedeon. Pugnaverunt nostri in nomine Domini”), ma anche, per mezzo delle parole di apertura “Benedictus Dominus Deus Sabaoth. Benedicti qui pugnant in nomine Domini”, inconfondibilmente allusive al Sanctus/Benedictus della Messa, come messaggera di Dio, ad immagine di Cristo. b) Il testo del mottetto a otto voci O Crux, splendidior cunctis astris, anch’esso di Andrea Gabrieli, risponde perfettamente alle esigenze liturgiche della messa celebrata il 3 maggio 1577 (in festo Inventione S. Crucis) per la fondazione della chiesa palladiana del Redentore, fatta erigere dal Senato per la liberazione di Venezia dalla peste di quegli anni, e, non meno, alle esigenze esterne, allegoriche, di una cerimonia penitenziale svoltasi in tempore pestis. Se il Cristo Risorto trionfa sul peccato e sulla morte (la peste viene intesa come punizione per i peccati dell’uomo), il ruolo della Santa Croce è ben illustrato nelle parole del mottetto: “O Crux, (…) quae sola fuisti digna portare talentum mundi: (…) salva praesentem catervam in tuis hodie laudi bus congragatam”. Così, l’esecuzione di questo mottetto verrebbe a collocarsi all’interno di un “sistema” simbolico di largo respiro: la cerimonia per la fondazione di una chiesa dedicata al Redentore, con la quale si chiedeva a Dio la liberazione dalla peste, avviene, come s’è detto, in occasione della festa dell’Inventio S. Crucis, in una chiesa dedicata – guarda caso! – alla venerazione della Croce. c) Sorprende come, nell’ambito della festa dell’Ascensione celebrata tanto fastosamente a Venezia, nel repertorio a stampa non compaiano brani per grandi organici. Questo, almeno, fino all’incoronazione del doge Marino Grimani il 26 aprile 1595, esattamente otto giorni prima della festa dell’Ascensione che, in quell’anno, cadde il 4 maggio. Così, per dirlo in termini liturgici, l’ottava dell’assunzione di Grimani al trono di Venezia coincise esattamente con la vigilia di quella di Cristo al trono celeste. Questa coincidenza e il relativo messaggio in termini “politico-propagandistici” sono impliciti nel testo del mottetto O Rex gloriae, qui beatum Marcum, di Giovanni Bassano, pubblicato pochi anni più tardi nel 1598, che unisce elementi derivati da due testi liturgici: il primo, “O Rex gloriae” si riferisce alla festa dell’Ascensione; il secondo, “Deus qui beatum Marcum evangelistam tuum”, è recitata o cantata nell’anniversario della creazione del doge. È un fenomeno, questo, che potrebbe trovare parallelo nei testi di alcune delle composizioni per grandi organici fornite da Lasso per la corte di Monaco di Baviera, in particolare quelli in lode dei membri della casa ducale o altri che, derivati dalla normale liturgia, tuttavia contengono chiari riferimenti a concetti che per ovvie ragioni non possono non essere di grande simpatia per i membri delle case regnanti (spiccano altresì i salmi, molto in evidenza anche nel repertorio veneziano). Comunque, non sarà certamente per caso che il fenomeno dell’allegoria politica, applicata all’interpretazione d’un normale testo liturgico, si affermi a Venezia in quegli anni in cui il concetto del potere sacrale dello Stato, sviluppatosi attraverso i secoli, viene proprio a scontrarsi con le rinnovate pretese centralizzanti e monopolizzanti della Chiesa della Controriforma.

[1] Siffatti studi e descrizioni possono essere trovati in G.M.Ongaro, The Chapel of Saint Mark at the time of Adrian Willaert (1527-1562): A Documentary Study, tesi di dottorato (Ph.d), Chapel Hill, 1986; J. Glixon, A Musicians’ Union in Sixteenth-Century Venice, ‘Journal of the American Musicological Society’, XXXVI, 1983, pp. 392-421.
[2] Archivio di Stato di Modena, Letterati, busta 11a, lettera del 12 dicembre 1581, citata in A. Newcomb, The Madrigal at Ferrara 1579-1597, I, Princeton, Princeton University Press, 1980, p. 261.

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