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Ho conosciuto Arvo Pärt anni fa a Laulasmaa in Estonia presso il centro che porta il suo nome. Pärt è uno di quei compositori che si potrebbe pensare di conoscere già da prima di averlo incontrato: un estone solitario, stravagante come la sua barba e che si colloca in un mondo di cosiddetto sacro minimalismo, una fantasticheria di semplicità che si crogiola nei suoni puri della tonalità ‘tintinnabulatoria’ (passatemi il termine), che profuma di arcaico (per alcuni) o di new age (per altri) in un mondo di caotica modernità. Il problema è che la sua musica è diventata, in un certo senso, vittima del suo stesso successo. Non sorprende che brani come Fratres o Spiegel im Spiegel o Tabula Rasa, siano così amati ed usati dai produttori cinematografici per i momenti di maggiore emozione: l’improvvisa atmosfera di calma e meditazione che la musica di Pärt comunica all’istante è una delle sue qualità più attraenti. Ma c’è di più nell’uomo e nel suo lavoro di quella immediata reazione sensoriale. In effetti, lo stile e la tecnica musicale di Pärt, almeno quella più conosciuta, i brani che ha composto dalla fine degli anni ’70 che rappresentano la svolta del suo linguaggio musicale, ha una preistoria sorprendente.

Cresciuto nell’Estonia comunista, Pärt si è trovato in contrasto con il regime su ogni piano estetico e spirituale. Scrisse il primo pezzo seriale estone (Nekrolog), nel 1960, le cui dissonanze ed intensità espressionistiche ti sconvolgono se conosci Pärt solo dal suo stile successivo! A quel tempo sperimentò il neoclassicismo e la dissonanza aggressiva in modi che erano destinati ad alienarlo dalle autorità sovietiche ma che iniziarono a rendergli rispetto e stima in Occidente. Le credenziali moderniste di Pärt furono cementate nella sua prima e seconda sinfonia, ma una crisi arrivò, improvvisa, nel 1968 con il suo Credo, un’opera in cui almeno tre mondi si scontrano. Credo era un tentativo di simboleggiare la sua frustrazione per quello che erano diventati, per lui, dei ‘passatempi per bambini’ delle avanguardie, finiti, sepolti… Ecco che allora in Credo si contrapponeva, violento, un mondo di purezza rappresentato dalla tonalità bachiana (il famoso preludio n. 1 in Do Maggiore) unito ad un testo religioso. Il pezzo evitò per un soffio la censura del partito comunista solo perché il direttore dell’orchestra, Neeme Järvi, non mostrò lo spartito al sindacato dei compositori estoni prima della sua premiere. E già alla sua prima rappresentazione il pezzo fu un parafulmine per la protesta contro il regime, sia per la sua arditezza musicale che per la sua trasparenza religiosa.

Ma quello che successe dopo fu qualcosa che i censori, e lo stesso Pärt, non avrebbero potuto prevedere. Il compositore entrò in un autoimposto esilio creativo per i successivi otto anni, cercando un modo per risolvere il conflitto creativo che aveva aperto con il Credo. La sua terza sinfonia, del 1971, è l’unico pezzo che risale a questo periodo di transizione, un tentativo di fondere elementi delle tradizioni da cui Pärt era attratto: canto gregoriano, semplicità armonica ed esplorazioni spirituali all’interno della sua fede ortodossa russa.

Il 1976 vide il successo della sua ricerca e il risultato apparve come se questo fosse esistito da sempre, la musica dei ‘campanelli’, i cosiddetti tintinnabuli, che si sentono per la prima volta in un corto brano per pianoforte, Für Alina. Questa miniatura rappresenta il seme da cui è cresciuto il resto dell’esperienza musicale di Pärt: nel giro di un paio d’anni Pärt compose i brani che sono ancora tra i suoi più popolari di oggi, tra cui Fratres, il Concerto per due violini, Tabula Rasa, Summa e il Cantus in Memoriam Benjamin Britten.

Ed ecco dove è facile lasciarsi ingannare dai preconcetti sul lavoro di Pärt. Respingerlo come un minimalismo cliché e sentimentale è semplicemente sbagliato. Il potere della “tintinnabulazione” deriva dalla combinazione di rigore ascetico e dall’apparente semplicità dei suoi materiali sonori. Non ci sono misteri! Pärt ha progettato regole rigorose per controllare il modo in cui le armonie si muovono in combinazione con le linee melodiche, severe quanto nel serialismo; ironia della sorte, dato il suo rifiuto delle precedenti espressioni ossessive dell’avanguardia, il successo del suo nuovo linguaggio musicale dipende proprio dall’oggettività del pensiero richiesto dalla composizione seriale. Quell’austerità del processo rende la tintinnabulazione di Pärt un nuovo uso della tonalità, ma anche un nuovo tipo di tonalità, e spiega perché la sua musica suona contemporaneamente antica e moderna e perché incarna una espressività genuina piuttosto che una conseguenza di convenzioni già usate da altri.

Il successo del lavoro di Pärt, il repertorio corale che ha composto negli ultimi quattro decenni, le opere strumentali, persino la nuova sinfonia che compose nel 2008, è, penso, molto più che un semplice successo popolare per un compositore che usa accordi consueti e familiari. Pärt mi disse quel giorno che ciò che voleva è che la sua musica esprimesse “amore per ogni nota” e, a sua volta, comunicasse il potere spirituale che egli vede come lo scopo ultimo della musica. Pärt è troppo modesto per dire di averlo raggiunto, ma per gli ascoltatori che amano la sua musica, è una verità inconfutabile.

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